3 Ott - 2018
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3 ottobre 2013

E’ lungo, lo so. Ma dopo 5 anni sono riuscito ad esternare e a raccontare qualcosa.

Oggi è sempre di più il 3 ottobre 2013.
Il 3 ottobre del 2013 lavoravo a Lampedusa, in una delle mie meravigliose settimane al CSPA di Lampedusa, il centro di primo soccorso e di prima accoglienza dei migranti. Mai avevo avuto un così alto scambio culturale che quello di conoscere in prima persona le usanze e i costumi e i modi di dire e di fare di altra gente che veniva dall’altro capo del mondo. Neanche un libro te lo può raccontare.
Era un periodo in cui la morte in Siria faceva man bassa di tutto attraverso le mani del potere. Gas nervino, bombe, distruzione. Gaza gridava per la stessa ragione. In Libia c’era un delirio che ancora continua. E così via. Donne, bambine, ragazzine stuprate da branchi di non-uomini che prendevano una donna nera a caso per divertirsi, tra eritree, nigeriane, centroafricane in genere, e le violentavano in cinque o sei fin quando non si ritenevano soddisfatti, molto spesso lasciandole incinte.
Identica cosa accadeva a qualche ragazzino tra i dodici e i sedicianni. Gli uomini, soprattutto quelli che non avevano neanche un centesimo venivano sfruttati fino all’ultimo filo di muscolo in corpo, dopo di che, giacché ritenuti inutili, venivano relegati a quello che rimaneva della tratta, finanche ingoiati dal mare.
Lampedusa era un porto sicuro, non c’era dubbio. Arrivarci voleva dire salvarsi. Salvarsi dalla terra meschina degli sfruttatori e dei potentati boia, nazionali e internazionali. Salvarsi dalle doglie fameliche del mare che inghiotte tutto e tutti senza differenze e senza amore.
Il 3 ottobre del 2013 mi trovavo al mio penultimo giorno di turno. La sera del giorno dopo avrei lasciato l’isola per rivederla probabilmente il mese successivo.
Avevamo 32 ore di veglia. Un lavoro no stop, dove solo mangiare un boccone ti dava due minuti per riposare il cervello e i muscoli.
C’erano arrivi infiniti di eritrei, senegalesi, maliani, nigeriani, siriani a non finire. Il centro di primo soccorso poteva ospitarne solo 380 circa, ma sul campo si contavano più di mille presenze ogni giorno. Bambini, donne, donne incinta all’ottavo e nono mese, uomini, ragazzi, vecchi, gente sana e gente ammalata.
Le 32 ore di veglia non le sentivi neanche. C’era un corso adrenalinico preferenziale che ti teneva lucido e sveglio, attivo come un grillo. Quello che stavi facendo lì, sapevi che era la cosa più importante che stavi facendo nella tua vita. Il senso di utilità e di aiuto per il prossimo che generavi con tuo dire, il tuo fare e il tuo dare, superava la poesia.
Il vice direttore ci portò i cornetti alle 6,30 del mattino per farci una sorpresa e darci una pausa dolce. Le identificazioni della polizia procedevano, erano al numero 168 su 460 del barcone che era arrivato in nottata, insieme ad altri barconi, la cui gente era stata già identificata ed era passata a visita, uno per uno, da noi in infermeria, accudita dagli operatori che distribuivano pasti e vestiti. Eravamo insieme alla dottoressa e alla infermiera in turno, mia collega, quando arrivò una telefonata al vice direttore. Il volto di Cristiano cambiò. Diventò bianco. Non si sapeva cos’era ben successo, ma si parlava di una catastrofe. La gambe tremavano a tutti anche se la notizia non ci era giunta chiara e tonda. Avevamo lo stesso sentore di chi aveva appena saputo di un bombardamento inaspettato a dieci minuti dalle tue scarpe.
Partì lo stato di emergenza, una cosa che non avveniva da tempo, se non in situazioni di estrema calamità. Tutte le forze sanitarie in campo, a Lampedusa, scendevano al molo. Il funzionario delle forze dell’ordine aveva dato lo stesso ordine a tutte le forze di spondili sull’isola. La movimentazione generale era incredibile. Ognuno correva con il suo mezzo.
Siamo arrivati sul molo Favarolo che un silenzio ovattato tarpava l’udito e il pensiero. Il mare calmo, il sole che specchiava i raggi come è possibile dirlo nelle favole ci faceva strano. Intorno al cemento del molo, tutte le imbarcazioni della guardia costiera avevano lasciato gli attracchi; e così anche le imbarcazioni della polizia, della finanza, dei carabinieri. Tutte.
Abbiamo aspettato circa una decina di minuti per vedere arrivare anche gli altri operatori del centro, i più veterani. Gente che aveva visto e salvato anche uomini in mare e che si era ritrovata in mano corpi sgozzati dalle onde che distruggono ogni cosa schiantandola sulle rocce dell’isola. Quando arrivarono pure loro si capì ancor di più che qualcosa di veramente grosso ci stava aspettando. Il molo Favarolo, non ti consentiva di vedere la spiaggia dell’Isola dei Conigli perché coperta da un muro di rocce. Così, pochi minuti dopo, sentimmo il primo motore di una imbarcazione. C’era un suono indecifrabile, che superava il suono basso del motore. Si perdeva nel mare. Un lamento.
Quando l’imbarcazione superò gli scogli per rendersi a noi visibile, c’era una barca turistica con circa 40 persone a bordo, nude e tremanti. Scosse.
Alla prua della barca c’era una donna. Aveva il corpo piegato dal dolore e i suoi pianti e i suoi lamenti di strazio invadevano il mare e il cielo come in un racconto di Omero. Era la donna, proprietaria della barca, che insieme a un paio di uomini avevano tratto in salvo i primi che erano stati in grado di prendere. Continuava a gridare di sbrigarci, perché non c’era tempo e i secondi passavano più velocemente del normale. Quando la barca si avvicinò al molo eravamo tutti pronti. Un ragazzo, il primo a toccare terra, tremava come una foglia e aveva la pelle attaccata alle ossa come di chi non mangiava da non so quanto tempo. Scioccato da quello che gli era successo aveva difficoltà a fare un passo verso di noi, mentre gli sfinteri del corpo lo abbandonavano e un filo di liquido fecale giallo come l’oro gli correva su per la coscia destra come una ferita di guerra sanguinante. Si faceva addosso per il terrore di chi aveva visto la morte negli occhi e non aveva ancora capito di esserne uscito vivo. Avrà avuto non più di 17 anni. Dietro di lui c’erano una quarantina di persone interdette in un silenzio indescrivibile. Pian piano, li abbiamo fatti scendere uno per uno. La comunicazione tra di noi era velocissima. Le ambulanze e il pullman del CSPA e i mezzi del Poliambulatorio salivano e scendevano come razzi. Molti li prendevo in braccio che non capivo neanche da dove mi veniva fuori quella forza. Nel frattempo tutte le vedette arrivavano, colme di gente che ogni imbarcazione sembrava la bocca di un formicaio. Barche piene zeppe di uomini, donne e bambini. E non c’era nessuna differenza di fronte alla vita e alla morte. Nessuna becera differenza di qualsivoglia tipo di appartenenza oggi possa essere stata riesumata incivilmente. C’era gente in piedi sulle barche e gente distesa. Alcuni di loro erano già morti e non lo sapevamo ancora. La guardia costiera avvicinò la prima vedetta alla terra ferma. Da quel momento in poi, cominciò la conta. Sempre di più arrivavano un numero inferiore di vivi e progressivamente un numero più alto di morti. Arrivarono i sacchi neri, quelli con la cerniera al centro che si vedono in televisione. Le donne e gli uomini della scientifica, che facevano le foto per le identificazioni dei corpi, piangevano con gli occhi appiccicati al quadratino dell’obbiettivo.
C’erano tre bambini distesi per terra. Uno di loro aveva i jeans, piccolini, come li può avere un bambino di tre anni. Aveva le scarpette piccole, degli scarponcini finti Lumberjack come si usavano allora, quelli color camoscio chiaro. Un altro aveva un giubbino blu, di questi imbottiti. Tutti e tre avevano la stessa espressione; gli occhi girati all’insù, la bocca schiumante e senza un filo di respiro.
Piangevamo tutti, mentre ci davamo da fare. Era una tragedia immane. Le soldate e i soldati si sbracciavano a tirare fuori insieme a noi gli altri corpi. Così gli operatori. Noi infermieri e medici camminavamo sul molo e dentro le barche toccando i polsi a tutti. C’era gente che sembrava viva in momenti che erano solo delle visioni. Erano morti.
“Quello respira!
Avanti respira!!
Ti prego respira!”
Una donna riversata, un uomo riversato, un bambino riversato.
Una donna riversata, un uomo riversato, un bambino riversato.
Senza respiro.
Gli occhi girati.
Morte per affogamento.
“Quanti sono? 92, ne arrivano ancora.”
Al CSPA ne avevamo portato su un centinaio, vivi.
Sono andato al Centro di primo soccorso che il corridoio della infermeria faceva la puzza di nafta che i sopravvissuti avevano bevuto insieme all’acqua di mare.
Ci siamo attrezzati come meglio potevamo. Mentre i morti continuavano a salire, arrivava comunque qualcuno vivo. Li toccavamo come i figli che non avevamo. Gli pulivamo i piedi, la bocca, gli occhi come si fa a un fratello e a una sorella.
Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare, che era in nostro potere, tutto quello che potevamo anche creativamente ingegnare per superare tempestivamente i limiti dei mezzi.
Tutti hanno fatto tutto.
368 uomini in mare sono morti in preda a un mare calmo come l’acqua ferma di una vasca da bagno.
La notte non è stata più notte, il silenzio non è stato più silenzio, il giorno non è stato più un giorno.
Sono tornato a casa il giorno dopo. Era finito il turno, nel peggiore dei modi.
Non volevo vedere essere umano nel raggio di 50 metri da me. Sono salito direttamente in campagna, da dove sto scrivendo adesso.
Ho cominciato a scrivere perché non riuscivo a parlare. Ho preso il calore dagli alberi, dalle piante e dagli animali. Ho aiutato il pensiero piantando una piantina in una terra che dà e che non ingoia.
Ho preso la forza dagli occhi di chi non usa l’odio per infoiare le masse spingendo gli ultimi contro gli ultimissimi.
Ho scritto Orfani per desiderio, tutto d’un fiato.
Di getto uscirono Qui il cielo è Strauss, Carlotta, Sopra la barba del temporale, L’amore non ci trova più. Poi venne fuori tutto il resto.
Dedico questo disco e questo brano a quei morti, perché è loro.
Dedico le stesse cose ai vivi che vogliono vedere, che vogliono sentire e che non si girano dall’altra parte. A quei vivi che non lasciano morire le persone in terra e in mare. A quei vivi che hanno una vita spirituale oltreché meramente materiale. Perché il mondo esiste perché ci si aiuta. Tutto il resto è immonda solitudine e non ha nulla a che vedere con l’essere umano.